Dedicato a due Comandanti “speciali”

Accomunati da una tragica fine e dal grande rispetto dei propri soldati….

Enrico Mino (Mandello Lario, 10/04/1915 – Girifalco, 31/10/1977), uscito sottotenente nel 1936 dalla Regia Accademia, partecipò alla seconda guerra mondiale in Nord-Africa e venne fatto prigioniero in Tunisia nel 1943 (insieme agli ultimissimi sopravvissuti della gloriosa Folgore). Al ritorno dalla prigionia con il grado di maggiore entrò nello Stato Maggiore dell’Esercito e poi, come colonnello, nel comando NATO del Sud Europa; fu anche a Madrid come addetto militare dell’ambasciata italiana. Nel 1962 divenne generale di brigata e nel 1966 generale di divisione, al comando della Folgore, e con incarico di consigliere militare aggiunto presso la presidenza della Repubblica. Dopo la promozione a generale di C.d.A., fu nominato Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri. In quel ruolo, fu vittima di un “incidente aereo” mentre si recava in Calabria. L’elicottero precipitò sull’altopiano della Sila, nei pressi di Girifalco, e con lui morirono altri quattro militari. I “Folgorini”, soprattutto quelli che prestarono servizio a Villa Margherita, non potranno mai dimenticare. R.I.P.

Tra gli atti terroristici riconducibili al regime del colonnello Gheddafi, vi è l’attentato al DC10, della compagnia francese Uta, del 19 settembre 1989 in cui perirono 170 vittime tra le quali 10 cittadini italiani. L’aereo esplose mentre stava sorvolando il deserto del Ténéré sulla rotta Brazzaville-Parigi e fu provato il coinvolgimento del regime libico. Nel cimitero parigino di Père Lachaise c’è una stele che ricorda l’attentato con tutti i nomi delle vittime.
Su quel volo c’era anche il nostro stimato e amato Capitano Gioacchino Diasio di 51 anni.
La politica italiana ha probabilmente da tempo rimosso dalla memoria quell’evento, ma noi “Folgorini” non potremo dimenticare mai il nostro compianto capitano. R.I.P.

68 3° - 2° comp- De Biasio Mino

Questi due Ufficiali compaiono in diverse foto del 1968 con altri ufficiali (TCol. Omero Petricci, Cap. De Meo, Sten Pallottini, ecc.) ma soprattutto in mezzo ai loro soldati che, in ogni immagine, hanno volti sorridenti e paiono stringerli in un grande abbraccio… resterà ad essi per sempre l’orgoglio di averli conosciuti e aver condiviso momenti della vita con queste due “speciali” persone.

 

Riemergono lentamente dalle nebbie del passato…

E’ successo a tutti noi… sono i ricordi. La nostra mente, sollecitata da un oggetto che ci capita tra le mani o da un discorso tra amici o semplicemente da un’immagine, apre una finestra su uno scenario in cui noi abbiamo vissuto e che ci appare inizialmente sfocato ma che piano piano fa riemergere particolari.. e porta, a volte, a nuove considerazioni…

“Lasciammo il CAR di Arma di Taggia la sera del 16 Dicembre 1970. La riviera ligure era ancora piena di sole, anche caldo, ma ci attendeva una notte in tradotta partendo da Genova. Nel lunghissimo, scomodo (ammassati e surriscaldati su sedili di legno) e tormentato tragitto, una sosta in tutte le stazioni. In quei giorni l’Italia al nord degli Appennini era sotto una coltre di neve e dai finestrini appannati non si vedevano altro che paesaggi imbiancati. Addio belle giornate, addio bel sole della Liguria e anche a un bel po’ di spensieratezza in quella notte di viaggio con la mente piena di timori e incertezze….Dove si finirà?….Sapevamo solo che la stazione finale di arrivo della tradotta era Mestre. E vi arrivammo… dopo quasi 24 ore scendendo in una stazione deserta, gelida, neve e ghiaccio…
Ed ecco arrivare dei camion telati; sono per il trasporto delle “spine” (così ci apostrofavano gli addetti al “ricevimento”) alla caserma De Dominicis di Treviso. Durante il trasferimento da Mestre alla caserma nei “comodi telati CP70” a nafta (credo fossero questi gli automezzi di allora) ci fu il congelamento totale delle “spine” per una temperatura esterna che, ci pareva essere, forsanche di -10°C.
Finalmente (era il 17 dicembre 1970) l’arrivo nel grande cortile della caserma De Dominicis di Treviso. Veloce rifocillamento con bevande calde nella mensa e, subito dopo, l’inizio delle varie incombenze organizzativo-burocratiche, appello, magazzino vestiario, sistemazione in camerate, ecc. ecc. Benvenuti a Treviso, benvenuti nella Folgore. Cominciava la vera “naja”.
Bello ricordare che a volte, ma solo quando si prendeva la decade (circa 1500 lire), in libera uscita si andava a bere qualche “ombreta” in varie osterie della città; ma per me la migliore era l’Oca Bianca, dove si beveva il Clinton in tazze di ceramica.
La mia sensazione rimane che a Treviso la gente volesse bene ai soldati (almeno così io vedevo) ed era allora curioso notare, quando si fermava qualcuno per porre una domanda, sentirsi dire: “..comandiii ??” ben sapendo che a Roma, in analoga circostanza, ti avrebbero invece detto “..che vvvoi ??
E il tempo, tra manovre, servizi, poche licenze e tante nuove conoscenze, trascorse, visto poi da oggi, molto velocemente.
Congedato il 20 dicembre 1971, tornai a casa, a Roma, e, dopo i festeggiamenti per il rientro e le festività natalizie, lì cominciarono le vere preoccupazioni… il lavoro… la fidanzata che aspettava.… l’ansia e i timori per un futuro sconosciuto. Fortunatamente, con il passare del tempo prevalse lo spirito dei vent’anni con la tenacia dei giovani di allora… bisognava cominciare la vita lasciando da parte paure e angosce… rimboccarsi le maniche e trovare il proprio posto nella società civile.
Cominciarono da subito a impallidire i ricordi come l’ormai vecchia ossessione della ronda o il saluto sull’attenti al passaggio di un ufficiale; e intanto si sentiva dire che anche la vita nelle caserme stava cambiando, prima con la riduzione del periodo di leva e poi con l’abolizione della coscrizione obbligatoria.
Oggi capita a volte, osservando il comportamento di tanti giovani, di chiedersi se si sia sbagliato nel non aver mantenuto un servizio militare da farsi lontano da casa. Bisogna ammettere che, allora, a molti di noi fece bene incrementando l’autonomia personale, e quindi anche l’autostima, e, contribuendo alla formazione della personalità e alle capacità di rapporti interpersonali, fu positivo anche per l’intera comunità”.

Carmelo Maiolo – 5 aprile 2020 – Ripensando alla vita militare

Folgore ai tempi del coronavirus…

I “ragazzi” della Folgore son stati presenti sui luoghi di tante tragedie nazionali e in molti casi si sono distinti sui campi di battaglia… ma questa volta il nemico è invisibile! Anche questa volta però l’Esercito non ha mancato di dare il suo contributo e, incredibilmente, solo nell’emergenza ne viene riconosciuto il valore. Ospedali da campo allestiti velocemente per aiutare una Sanità messa in ginocchio e con Ospedali saturi; presidio delle strade dove connazionali che, benevolmente, chiamiamo incoscienti si aggirano ancora convinti di fregare le regole mentre fregano sé stessi; e, per finire, anche i mezzi per trasportare le bare che hanno saturato i cimiteri. Necessario quindi esprimere ancora una volta la nostra solidarietà e il nostro incoraggiamento.
Noi li possiamo aiutare in questo momento
RESTANDO A CASA
…ci resta così il tempo per rivedere le fotografie dei Raduni e Ritrovi che sembrano appartenere a un’altra realtà… ma fortunatamente non mancano i mezzi per sentirsi vicini con telefonini e computer.. e chissà che un giorno…

El Alamein, il sacrificio della meglio gioventù

In tanti libri si può oggi ritrovare la storia dell’originaria Divisione Folgore e di quella epica battaglia che la vide protagonista e vittima sacrificale. Ma un libro scritto da un grande personaggio che non vi apparteneva ma che con essa condivise i momenti più tragici, sembra dare una visione più complessiva dell’evento e, con grande umanità, descriverne gli eventi : “Alamein 1933-1962” di Paolo Caccia Dominioni – Vincitore premio Bancarella 1963 con motivazione certamente condivisibile: “Il libro che, meglio di ogni altro, ha raccontato la battaglia simbolo della guerra sul fronte d’Africa”.
L’autore, era comandante del XXXI° Battaglione Guastatori del Genio Alpino quando fu aggregato alla Divisione Folgore durante la battaglia di El Alamein.
Il destino di Paolo Caccia Dominioni, soldato e ingegnere, umanista, esploratore e scrittore, è indissolubilmente legato al nome di quel luogo perso nelle sabbie del deserto africano. Il suo primo viaggio colà, come esploratore, nel 1933; poi vi ritorna con il Battaglione Guastatori per la epocale battaglia, e poi ancora dal 1948 al 1962 per la lunga ricerca, paziente e pericolosa (oltre un milione di mine, dei sei milioni e mezzo, non erano ancora state dissotterrate) dei corpi grazie alla quale più di cinquemila soldati italiani caduti troveranno l’ultima casa nel Sacrario da lui progettato e costruito.
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Paolo Caccia Dominioni, Nerviano 1896 – Roma 1992, il 24 maggio 1915, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ancora studente di ingegneria, si arruola nei “bersaglieri ciclisti” ma, dopo cinque mesi, entra nella Accademia Militare del Genio e partecipa poi, come tenente, ai combattimenti sull’Isonzo dove si guadagna il primo riconoscimento, Medaglia di Bronzo al V.M. Nel 1924, tornato civile e laureatosi in ingegneria, apre uno studio al Cairo, progettando importanti edifici in tutto il Medio Oriente. Richiamato in servizio, partecipa nel 1935 alle operazioni in Etiopia guadagnandosi un’altra decorazione.
Agli inizi del 1940, mentre stava dirigendo i lavori per la costruzione dell’Ambasciata d’Italia ad Ankara, venne richiamato in servizio per la quarta volta e assegnato al Servizio Informazioni Militare. Insoddisfatto di questa collocazione di retrovia, ottiene il trasferimento al Genio Guastatori Alpino destinato all’impiego in Russia; nel luglio 1942 gli viene invece affidato il comando del 31º Battaglione Guastatori in partenza per la campagna del Nord Africa.
Né la Folgore né i Guastatori cedettero terreno al nemico ma, quando giunse l’ordine di ritirata, si ritrovarono accerchiati. Riuscì a forzare il blocco con metà del suo battaglione e di altri reparti unitisi; raggiunge Marsa Matruh e contribuisce a bloccare temporaneamente l’Ottava Armata. Il suo battaglione fu l’unico reparto organico superstite del X° C.dA.; per questo, viene decorato con Medaglia d’Argento al V.M.
Rimpatriato, nel maggio 1943 promuove la ricostituzione del suo Battaglione, Genio Guastatori Alpini, ad Asiago e ne assunse il comando fino all’8 settembre 1943. Sfugge alla cattura tedesca e decide di darsi alla macchia entrando a far parte della brigata partigiana Garibaldi. Fu arrestato e subì duri trattamenti ma poi fortunosamente scarcerato per un cavillo il 15 febbraio 1945. Le sue capacità militari lo portarono alla carica di Capo di Stato Maggiore del C.V.L. e alla fine della guerra ricevette la Medaglia di Bronzo al V.M.
Dopo la fine della guerra riprese ben presto la sua attività nello studio di ingegneria del Cairo, e nel 1948 ottenne l’incarico dal governo italiano di risistemazione del cimitero di guerra… con un solo sergente come collaboratore!
La missione durò quattordici anni, spesi in gran parte nel deserto con molta abnegazione, alla ricerca ed esumazione delle salme dei caduti di ogni nazione sparse nel vasto campo di battaglia (con estesi campi minati ancora efficienti che, negli anni di ricerca, provocarono la morte di sette collaboratori indigeni), e culminò con la costruzione del sacrario italiano da lui progettato.
Paolo Caccia Dominioni, che parlava correntemente tedesco, francese, inglese, arabo, continuò la sua attività di progettista e scrittore anche in tarda età fino alla morte, sopraggiunta all’ospedale militare del Celio all’età di 96 anni nel 1992. Nel 2002, in occasione del 60º anniversario della battaglia di El Alamein, il Presidente della Repubblica ha concesso al tenente colonnello Paolo Caccia Dominioni di Sillavengo un ultimo riconoscimento, la Medaglia d’Oro al Merito dell’Esercito “alla memoria”.

Un cinegiornale propagandistico d’epoca dell’Istituto Luce mostra il 31º Guastatori in azione, con effetto assai realistico, e vi appare anche il Maggiore Caccia Dominioni dare istruzioni ai suoi uomini con in testa il suo amatissimo cappello alpino.

Dedicato agli autieri del Battaglione…

Sono lo sfondo, la scenografia, di molte foto-ricordo di tanti militari… erano sempre bene allineati alle spalle delle compagnie durante le adunate importanti… erano gli automezzi in dotazione alla caserma… …e gli autieri ne verificavano l’efficienza tutti i giorni, magari solo per pulire i contatti delle batterie e isolarli con la vaselina passata col pennello, o più semplicemente per i controlli dell’Ufficio Automezzi di Battaglione o per tirarlo a lustro con un con pennello e del gasolio. Poco nominati in un Corpo dedito alle Trasmissioni, gli autieri hanno sempre svolto un lavoro egregio e fondamentale per il raggiungimento degli obbiettivi del reparto: hanno trasportato sulle panche del cassone centinaia di militari per andare ai corpi di guardia, alle manovre o a un campo e per assicurare loro, oltre che a tutta la caserma, i necessari rifornimenti.
Vi è un’enorme differenza tra chi, dopo aver conseguito la patente con qualche ora di guida, è convinto con “presunzione”, di essere un autista completo e coloro che invece sono stati al volante di un mezzo pesante e su strade impervie per tanti giorni.
Fare l’autista (professione poi scelta da molti autieri dell’Esercito) è un impegno che richiede “malizia” ed esperienza che si raffinano solo con una buona pratica.
Quella militare fu senz’altro una buona “palestra” per formare buoni conducenti
Gli automezzi che si videro in quegli anni sono ormai da tanto tempo consegnati alla storia dei trasporti.
In una foto si vede anche un Lancia Cp48, ovvero la versione militare del Lancia Esatau 864 messo sul mercato nel 1947 e usato in moltissime versioni con vari allestimenti. Poi vi erano i vari ACP, ACM e ACL che classificavano “autocarro a carico pesante, medio, leggero”, perdendo frequentemente la A iniziale.
L’autocarro CM52, versione militare del Fiat 639 N2, fu un camion storico dell’Esercito, antenato dell’Iveco ACM 80/A 6613 G (degli anni ’80 appunto), lungo 6,4m., diesel a 6 cilindri di 5.500 cc, 160 cavalli, enorme coppia motrice che, associata alla trazione integrale inseribile anche in movimento, al differenziale posteriore bloccabile e al baricentro spostato in avanti, permetteva di affrontare salite e discese anche del 60% (ma richiedeva la “doppietta” nelle scalate) e poteva anche trainare rimorchi di 4 tonn. come per es. i gruppi elettrogeni o shelter.
Dal sito della Difesa online: “Coloro che hanno avuto il compito di affiancare il conduttore come capomacchina ricorderanno in particolare le sterzate da fermo. Un’operazione che per svolgersi richiedeva un seppur minimo movimento del camion e una notevole forza bruta nelle braccia tanto che il compito ufficioso del graduato in cabina era anche quello di aiutare il conduttore a sterzare. Infatti nella sua estrema robustezza e relativa semplicità non era provvisto di servosterzo e i giri del volante erano circa 6 da una direzione all’altra.
Un’idea della complessità di guida si può avere vedendo questo video.
Poi vi erano i più piccoli CL51, prodotti dalla OM di Brescia (OM 20.105) e dalla Lancia di Torino.
Lungo 4,65m, largo 2m, passo di 2,5m, peso a vuoto di 2.835 Kg, portata max 1.800 Kg e sullo stesso autotelaio vennero costruite alcune versioni chiuse con carrozzeria a furgone destinate all’impiego come carro radio e ambulanza, come alcune versioni dell’F20 Alfa Romeo.
Indimenticabile la mitica “Campagnola”, Fiat AR 51 (cui seguirono le versioni 59 e 76 negli anni corrispondenti), che dal 1951 è stato il fuoristrada delle nostre caserme. Aveva sostituito le vecchie Willys 4X4 che gli americani avevano lasciato alla fine della guerra.
L’AR 51, motore da 1900cc, 63 cv, robusto telaio portante a longheroni con sospensioni indipendenti, lunghezza di 3,7m, peso 1300 kg e consumo di 5 km/l, cambio a 4 marce con ridotte, differenziale posteriore bloccabile con manicotto di sicurezza (che in caso di mancato disinnesto, nelle curve si rompeva per salvaguardia della meccanica…. chissà quanti ne furono cambiati), 116 Km/h la velocità massima (ma diventava inguidabile considerato il peso, i freni a tamburo, ecc.).
La Fiat, per reagire al dramma del dopoguerra, volle pubblicizzare la sua nuova nata organizzando per l’AR 51 l’attraversamento dell’Africa; Paolo Butti vinse il record mondiale completando il percorso in soli 11 giorni.
E, dopo tutto questo, ricordiamo anche i motociclisti che accompagnavano, tutti ben bardati, le colonne di automezzi con i loro Moto Guzzi Superalce.