C’era una volta la NAJA….

Fra una generazione, alcune parole per noi di uso comune non si capiranno più se non dopo una ricerca “storico-filologica”; parole a rischio di oblio come “carta carbone”, ”calamaio”, ”voce in Capitolo”, “antifona”, ecc.
E così anche per “naja”, ovvero il servizio militare di leva che fino a pochi anni fa era obbligatorio per tutti i maschi divenuti maggiorenni e che interessò per secoli milioni di giovani chiamati “sotto le armi”. Un universo, il servizio militare di leva e le relative caserme, che si ritrova ancora in racconti, romanzi, film, in cui bene o male si parla di un’istituzione per sua natura preposta alla guerra (o alla difesa).
Fu Machiavelli che lanciò l’idea di costituire eserciti di “cittadini in armi” in sostituzione dei “mercenari” e, dopo cinque secoli, siamo ora tornati ai professionisti, uomini e donne, reclutati tra cittadini volontari (una volta erano i “firmaioli”). Forse in futuro saranno costituiti da soldati di qualunque origine (come la “Legione straniera” o lo spagnolo “Tercio”) in base all’umanissimo principio che nessuno ci tiene a rischiare la pelle se si può disporre di quella di altri a pagamento…
Ma riportiamo alla memoria alcune parole ed espressioni tipiche della vecchia “naja”:
– “Leva”. Non era quella meccanica per sollevare pesi ma la “chiamata” annuale di tutti i cittadini maschi. Dalla nascita si veniva inseriti nell’anagrafe comunale tra i futuri “coscritti”. Poi veniva affisso un illeggibile manifesto sulla “chiamata alle armi per la classe….”. E al diciottesimo anno cominciava la procedura per l’arruolamento … con i giovani, venivano censiti anche i muli e gli alberi adatti per le possibili costruzioni militari. La “ferma” era la durata del servizio militare.
– “Fare i tre giorni”. Dopo la prima visita di leva, il Distretto Militare convocava i coscritti per un ulteriore esame. In fila in mutande con un foglio anagrafico in mano, per tossire e dire trentatré, davanti al medico militare. I seminaristi, in base al Concordato potevano sfilare in una stanza diversa! Poi un giorno e mezzo (e non tre!) in una caserma, con un rancio vero e le probabili prime sfottiture con commenti su nomi e cognomi scanditi per l’appello. Alla fine si riceveva un “abile e arruolato” o il riconoscimento di “ridotta attitudine militare” o “dispensato dal servizio militare”.
– “Vestizione”. Al secondo giorno di permanenza in caserma viene consegnata ad ogni soldato la “divisa” (che lo “divide” dagli altri, dai disprezzati “borghesi”), da lavoro e da libera uscita, e anche una dotazione personale di vari articoli.
– “Decade”: la paga del soldato, quasi simbolica, e pensare che “soldato” significa “pagato”. Una frase comunissima:” Qui non sei pagato per pensare”.
– “Cubo”: Metodo particolare per piegare le coperte e lenzuola della propria branda. Una delle prime cose da imparare in caserma per evitare “sbrandamenti”.
– “Ufficiale di giornata”, un ufficiale subalterno, riconoscibile dalla fascia azzurra a bandoliera (come il “Musichiere”), incaricato di controllare l’entrata, schierare la guardia per i visitatori importanti, controllare le sentinelle e la mensa. Di notte dovrebbe vegliare (e non dormire, vestito, al Corpo di Guardia!). I militari di guardia invece imparano a dormire in piedi!!
– “Picchetto”. Non quello per piantare una tenda… è un drappello di guardia interna alla caserma: il nome è di origine napoleonica, come “plotone”, ”compagnia” “reggimento”, “quartier generale” e i gradi (caporale – se “di giornata” è il responsabile dei servizi per quel giorno -, sergente, maresciallo, tenente, capitano, maggiore, colonnello, generale).
– “Furiere”: era il segretario-factotum del reparto. Faceva tutto: preparava, suggerendo furbescamente il da farsi al Capitano: biglietti di punizione, fogli di licenza, licenze-premio, “basse di passaggio” per trasferire un militare, distribuzione di “viveri di conforto”(cioccolata e grappa per le “grandi manovre”), distribuiva la posta e i “vaglia di papà” arrivati. Tutti lo ricercavano e disprezzavano perché non faceva mai esercizi e marce militari. “L’italiano in fanteria e il romano in fureria!” dicevano quei soldati che “parlavano tricolore” (perché tanti parlavano in dialetto, specialmente quando non volevano farsi capire o imprecavano). Non imprecavano e non bestemmiavano mai quelli che a casa erano stati “scout” cattolici. La “Messa al campo” era una cerimonia ufficiale e non ci si poteva dispensare, come da un servizio.
– “Ordine del giorno” e “Tabella”: fogli in cui sono scritti gli incaricati dei vari servizi di giornata e i nomi dei puniti con la “consegna” e che non possono andare in “libera uscita”. Altre punizioni: CPS (camera di punizione semplice) ossia si dorme in cella; CPR (camera di punizione di rigore) cioè agli arresti come un vero e proprio detenuto in una cella e i giorni di CPR allungavano la naja. Ma c’erano anche i “giri di campo” di corsa e le “flessioni” sulle braccia!!
– “Marcare visita”: è chiedere una visita medica per essere dispensati dai servizi (guardia, marce, corvè, ecc.). L’Ufficiale medico spesso non riconosce la malattia e ti qualifica come “lavativo”, proponendoti per una punizione. Se la malattia era riconosciuta, la cura era quasi invariabilmente: “purga” o “riposo in branda”. Continua a leggere

La “nostra”, cara indimenticabile Treviso…

Non c’è Folgorino del Btg Trasmissioni che non abbia qualche ricordo particolare della città di TREVISO, già citata anche in altri precedenti articoli. Le osterie, i cinema, i bar e, perché no, le ragazze e tutta la popolazione in genere che seppe accogliere, e molte volte consolare, quelle migliaia di giovani che, in molti casi, si trovava per la prima volta lontano da famiglie e amici. Treviso, oltre che bella per i suoi palazzi storici e una diffusa “pulizia”, è una città a misura d’uomo e la sua antica storia si può percepire ad ogni sosta di una tranquilla passeggiata lungo le sue vie. Perciò dovrebbe risultare gradita una visita, almeno virtuale in questo periodo, al suo F.A.S.T., il Foto Archivio Storico Trevigiano in via Cal di Breda 116. Prese da quello, ne anticipiamo solo alcune immagini, alcune molto vecchie ma ancora piene di fascino.
Nell’ordine: l’ultimo soldato austriaco dell’Impero Austro-Ungarico fotografato in città e poi invece il primo soldato italiano, cui segue una bella sfilata dei Lancieri di Novara… quelli della De Dominicis!
L’inverno in quella città è sempre stato rigido e gli uomini giravano col “tabarro”, ma Villa Manfrin, prima di diventare la Villa Margherita della Folgore, era già stupenda. All’Ossario di Nervesa molti di noi ci andarono in gita con camion militari a onorare gli Eroi del Piave.
E in libera uscita, ai più fortunati, sarà potuto capitare di andare a vedere il corpo di ballo di Gino Bramieri che si esibì sul palco del teatro Garibaldi; qualcuno sarà pure andato a sparare coi fucili ad aria compressa alla Fiera di San Luca… ma chi non ricorda i bianchi nebbioni di Treviso che ci avvolgevano… soprattutto durante interminabili turni di guardia notturni??

Quegli antichi, primi “Trasmettitori” della Storia

Nel ripensare alla lunga Storia delle Trasmissioni, bisogna ricordare che fin dai primordi è sempre esistito anche un modo molto semplice di comunicare a distanza… quello cioè di affidare i messaggi ad altri che li portassero a destinazione! E anche in questo caso si utilizzano i termini mittente, vettore, codice, ricevente, ecc.
Gli antichi Greci ne fecero addirittura un mito e tutti ricorderanno certamente dell’emerodromo (ovvero “colui che corre per un giorno intero”) Fidippide della Battaglia di Maratona (490.C.) che, secondo Luciano di Samosata, avrebbe corso ininterrottamente da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria e, giuntovi, sarebbe morto per lo sforzo. E, anticamente, in molti casi il messaggero, nel timore di una intercettazione, doveva pure imparare a memoria lunghi messaggi! Ma ben più antico (2000 a.C.) e non costituito di un solo messaggero, è anche documentato un “servizio postale” messo a punto e utilizzato già dai Faraoni dell’antico Egitto.
La nascita di quello “moderno” è fatto risalire all’opera dei Tasso (derivati dai quali l’agenzia Tass, i taxì, ecc.) nella Repubblica Veneta del ‘500, mentre sono di tempi recenti i leggendari “pony express” del Far West… ma, nell’arco della storia, tutti, re, imperatori, papi, nobili avevano sempre avuto a disposizione corrieri e messi e gli eserciti avevano dei soldati specializzati per questo compito.
Ma tra tutti questi “trasmettitori” non dimenticheremo certo la lunga storia del piccione viaggiatore, quella varietà del piccione domestico derivato dal piccione selvatico orientale, selezionato geneticamente per la sua abilità di ritrovare la strada di casa percorrendo distanze anche molto lunghe, sfruttando il loro senso di orientamento e il fenomeno della magnetoricezione.
La loro velocità media in volo, su distanze di 600 km, è di circa 80 chilometri all’ora e compiono voli sino ai 1.820 Km registrati in competizione colombofile.
Il suo primo impiego risale a ben oltre 3.000 anni fa quando già veniva adoperato da Egiziani e Persiani e poi considerato il principale mezzo di comunicazione ad alta priorità per le civiltà greco-romane. Nella Grecia antica, i vincitori dell’Olimpiade erano soliti appendere alla zampa di un piccione il “messaggio della vittoria”. Attraversando i cieli del mondo e le epoche storiche, passando dalla Roma di Giulio Cesare al Medioevo quando, durante le Crociate, erano usati dai Saraceni per scambiarsi messaggi sugli eserciti cristiani, per arrivare quasi ai giorni nostri, i piccioni viaggiatori sono stati utilizzati anche nel Novecento. Anche dopo l’invenzione del telegrafo, del telefono e dei sistemi radio, durante la Grande Guerra la maggior parte degli eserciti ne fece un grande uso. I sistemi radio potevano guastarsi, essere manomessi o intercettati e perciò l’esercito italiano creò delle colombaie mobili, attrezzate a volte per ospitare fino a oltre 100 colombi. E tale scelta fu talmente vantaggiosa in guerra che questi vennero riadoperati anche nel secondo conflitto mondiale: fu una colomba chiamata “Paddy” che il 6 giugno 1944, riuscendo a beffarsi dei falchi tedeschi (usati come contromisura) e attraversando oltre 230 miglia in meno di cinque ore, portò per prima le notizie dello sbarco in Normandia. Quel pennuto, alla sua morte nel 1954, fu ricordato e premiato in una speciale cerimonia e più tardi con un cartone animato.
E per finire con i nostri vecchi “trasmettitori”, una notizia dello scorso novembre sul loro valore attuale: “Il piccione viaggiatore più caro al mondo: comprato all’asta da un ignoto e facoltoso acquirente cinese per 1,6 milioni di Euro!”. Allevata in Belgio, New Kim, ha due anni ed è ormai una pensionata di lusso avendo vinto, nella sua breve ma intensa carriera, molte gare e ora servirà per la riproduzione. In Cina le gare di colombi viaggiatori sono da qualche anno sempre più in voga e producono volumi d’affare altissimi e premi multimilionari ai vincitori.

Un po’ di storia del Paracadutismo Militare Italiano

Il 29/12 scorso il buon Rivetti ci ha ricordato che in quel giorno, nel 1937: “Muore a Mogadiscio il tenente Alessandro Tandura a 44 anni. Durante la 1ª G.M. lanciandosi da un biplano Savoia-Pomilio nella notte del’8/8/1918 divenne il primo paracadutista al mondo in azione di guerra“.
E allora, ricordando che tanti, ufficiali e sottufficiali parà hanno prestato servizio anche nel nostro Battaglione, ripercorriamo i primi passi del paracadutismo militare in Italia, riassumendolo da vari siti e letteratura specialistica.
“Il paracadutismo militare italiano è nato durante la Grande Guerra. Era pionieristico e embrionale, ma già pieno di fascino. Nel 1918 tre giovani tenenti, Alessandro Tandura, Arrigo Barnaba e Ferruccio Nicoloso, vennero paracadutati dietro le linee austriache con il compito di capire i movimenti del nemico e riferire al Comando Italiano per mezzo di piccioni viaggiatori. Fecero il lancio (notturno!) senza aver ricevuto alcun addestramento, tranne il consiglio di tenere le gambe unite e di stringere i denti!! I paracadute erano Calthrop, soprannominati “Angel Guardians”. Tandura e Barnaba vennero decorati di M.O.V.M.; Nicoloso con l’ Ordine Militare di Savoia.
Agli inizi degli anni ’20 si cominciò a pensare a una vasta utilizzazione del paracadute. Fu il Tenente pilota Prospero Freri, durante il lungo periodo trascorso in ospedale per un incidente aereo in cui perse la vita il suo motorista, che studiò la possibilità di usare il paracadute paracadute 1come mezzo di salvataggio dei piloti; scrisse il libro: “Un ordigno di salvezza, Il paracadute” nel quale descriveva un dispositivo di apertura del paracadute con una calotta applicata sotto la fusoliera dell’aereo e, realizzatolo in collaborazione con Gennaro Maddaluno, lo chiamò “Aerodiscensore”; insieme poi effettuarono degli esperimenti all’Arsenale di Napoli con un aereo S.V.A. biposto. Ebbe, per quei tempi, successo tanto che già nel ’22 (8 ottobre) il Ministero della Guerra poté indire una “gara tra paracadutisti” all’aeroporto di Centocelle; obbiettivo: centrare un bersaglio con diametro di 150 mt lanciandosi da un’altezza di 300 mt. A questa competizione parteciparono i primi valenti paracadutisti e vinse Maddaluno guadagnando il premio di 3.000 lire. Studi ed esperimenti “presero il volo”.
– Nel 1923 Alfredo Ereno sperimentò il paracadute tedesco Heinecke, con un lancio a Bergamo, da 87 mt e a Napoli Alba Russo, la prima donna paracadutista italiana, si lanciò da 400 mt.
– Nel 1924 Freri e il tecnico polacco Furmanik idearono e costruirono un nuovo paracadute dorsale, abbastanza moderno nella sua concezione, denominato “Salvator”, di seta, 7,30 mt di diametro e con 24 funicelle di sospensione. Primo lancio sperimentale, da un aereo Aviatik, all’aeroporto di Taliedo, poi a Montecelio e a Centocelle perfettamente riusciti.
Il Ministero della Guerra decise allora di nominare una commissione per scegliere un paracadute di cui dotare i piloti; presidente il Col. Alessandro Guidoni coadiuvato dal T.Col. Giulio Gavotti, pioniere dell’aeronautica nella campagna di Libia del 1911/12. Fu scelto il paracadute Salvator. Continua a leggere

Uno in gamba, uno di noi…

Una cosa è certa… tutti quelli di noi che ebbero ad incontrarti per la prima volta in quei lontani anni alla Dedo, ne ricevettero subito un impressione della tua serietà e compostezza. Avevi allora da poco ricevuto la nomina a Maresciallo ma la tua completa dedizione ai compiti che ti erano stati affidati era ben solida da molto tempo prima.

Sempre pronto, nel “tuo” laboratorio, cacciavite alla mano per smontare, riparare, tarare stadi intermedi, rimontare e tanto altro hai fatto che l’Esercito ha pensato bene di dartene uno d’oro…
Quando noi, con il congedo in mano, lasciammo allora la caserma, avevamo salutato tutti… tenenti, sergenti, commilitoni, ecc. e i più di noi erano convinti che non ci saremmo mai più rivisti. E invece no… una incredibile combinazione di fatti, dopo tanti, lunghissimi anni ci ha riportato, per qualche giorno negli ultimi anni, a ritrovarci, a rivedere i nostri volti, segnati dalle rughe, con barbe e capelli bianchi ma con il sorriso di chi si sente fortunato di poter riannodare i casi della propria vita. E anche tu, Silvano, in mezzo a noi con il tuo volto sereno; il volto di chi sa di aver ben compiuto il proprio dovere fino in fondo, per tante cose… si, anche per aver riparato tanti guasti ma soprattutto di essere stato un buon esempio per tanti giovani. E così anche adesso come allora, con gran rispetto, ci salutiamo… chissà se ci rivedremo… ma sarai comunque per sempre un pezzo di noi. Ciao Maresciallo Bigini!

89° Reggimento di Fanteria Salerno… altri ricordi

Per molti di quelli che diverranno in seguito i “Folgorini” del Battaglione Trasmissioni Folgore, le caserme dell’89° Reggimento rappresentarono il primo impatto con la vita militare. Per questo e per il repentino, e notevole, mutamento di vita, quel nome è rimasto impresso nella memoria e basta poco perché riemerga riportando alla luce fatti lontani nel tempo. Le segnalazioni dei commilitoni, Dante Gianoli e Renato Scapin, ci ricordano due di questi avvenimenti capaci di suscitare sentimenti diametralmente opposti: simpatico il primo – Arma di Taggia 1957 – ma veramente tragico il secondo – Savona 1967. 89° - Banfi89° - Bargeggi c

I nostri simboli

Il nostro Battaglione Trasmissioni “Folgore” compare in buona e grande compagnia già nell’elenco dei “Corpi Disciolti” edito dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito nel 1995. Alcune delle cose restano però è ancora “vive” e altri uomini in divisa ora le custodiscono nella Caserma De Dominicis… si tratta dei valori che una bandiera rappresenta.
Ai nostri tempi ben pochi militari ebbero occasione di vederla… come una reliquia chiusa in un mobile a vetrina, si trovava in un angolo dell’ufficio del Ten. Colonnello Comandante del Battaglione.
Quella bandiera era stata sui campi di battaglia all’inizio del 1945 portata dal 184° Battaglione Misto Genio comprendente la “Compagnia Collegamenti”. Questi facevano parte del Gruppo di Combattimento “FOLGORE”, unità dell’Esercito Cobelligerante Italiano, appena costituitasi anche con la partecipazione di componenti della gloriosa Divisione di El Alamein. Fu il 1° marzo 1945 che quella “Compagnia Collegamenti” raggiunse il fronte e partecipò ai combattimenti sulle posizioni delle valli del Senio e del Santerno in sostituzione di una G. U. Britannica. Terminato il conflitto, già il 15 ottobre 1945 quel “Gruppo” si trasformò in Divisione di Fanteria Leggera “FOLGORE” (per alcuni anni fu vietato all’Italia di avere truppe paracadutate) e la Compagnia suddetta in Battaglione Collegamenti “Folgore” e, per il valoroso comportamento in battaglia di quei nostri predecessori, la Bandiera del Battaglione fu decorata, con decreto del 24 luglio 1947, di Medaglia di Bronzo al Valor Militare.
Quell’eroico simbolo, rappresentante dunque il sacrificio di tanti valorosi giovani, fu ereditato dal nostro Battaglione Trasmissioni “Folgore” che seppe custodirlo con onore e poi integrato di altri insiti valori, consegnarlo al successore Battaglione Trasmissioni “Cansiglio”, supporto della Divisione Meccanizzata FOLGORE derivato nel 1976 dalla sua trasformazione.
Il motto riportato nel crest è: “Tenace, Infaticabile, Silente“.
Il nostro Battaglione Trasmissioni “Folgore” non ebbe nella sua breve esistenza (1958-1975), come tante delle altre storiche unità dell’Esercito Italiano descritte nel volume di cui sopra, un proprio stemma araldico. Non per caso però tutti i suoi riferimenti li troviamo riportati nello stemma del successore “Cansiglio” che fu creato per il decreto 7 settembre 1977… infatti sappiamo che il progetto fu dell’allora Aiutante Maggiore Aleardo Guerra che era giunto in forza al “Folgore” nel marzo del 1973! Eccone la rappresentazione:

Lo Scudo è diviso in 4 settori e sormontato da Corona Turrita. Il nastro azzurro annodato alla corona rappresenta la ricompensa al valor militare ricevuta nel 1947.
1° quarto – stemma di Tarquinia, città nella quale si costituì nel 1937 il primo reparto dal quale il battaglione trae le origini.
2° quarto – la “folgore” e il “silfio”, pianta estinta della Cirenaica, simboleggiano il legame storico fra il Battaglione e la Divisione “Folgore” nella quale la “Compagnia Collegamenti” era inquadrata e l’Africa Settentrionale ove operò nel secondo conflitto mondiale.
3° quarto – è il distintivo di partecipazione alla Guerra di Liberazione alla quale prese parte come “Compagnia Collegamenti” del 184° Battaglione Misto Genio.
4° quarto – stemma di Treviso, città nella quale il Battaglione ha preso sede nel 1951.
La Lista bifida dorata riporta il motto: “VIVIDA FOLGORE VIVIDO INGEGNO”.

Quell’ultimo messaggio dell’Ariete…

L’ultimo messaggio dell’Ariete: Ariete accerchiata. Carri Ariete combattono”.
Immagini, filmati e ricostruzioni ci hanno permesso di conoscere l’eroico comportamento della “Folgore” a El Alamein. Qui si vuole rivolgere un riconoscente pensiero a quelli dell’”Ariete”; in particolare al XIII° Battaglione Carri della 132ª Divisione Corazzata “Ariete”, che dal 4 settembre al 22 ottobre 1942 era rimasto come riserva corazzata nel settore difensivo della Folgore e dal 23 ottobre al 5 novembre 1942, nella battaglia di El Alamein, si immolò eroicamente a fianco di quei paracadutisti.
All’alba del 4 novembre 1942 il XIII° Battaglione non esisteva più e al Comandante della sua 10ª Compagnia, Ten. Luigi Pascucci, venne assegnata la M.O. al valor militare alla memoria.
Il resoconto dettagliato tratto da: “El Alamein” del mitico Paolo Caccia Dominioni:


“L’Ariete, durante i primi nove giorni dell’offensiva, ha avuto impiego saltuario, senza impegnarsi a fondo ed è, nell’assieme, intatta, con 111 carri M13 del 132° Carri e 12 semoventi del 132° Artiglieria.
Dalle sue posizioni arretrate nel settore meridionale si è portata a nord il mattino del 3 novembre. Qui l’Ariete si schiera a difesa. Carristi e artiglieri corazzati sanno che contro gli Sherman non sono efficaci altro che i pochi pezzi da 75, 90 e 100 disponibili: per il resto potranno sparare gli innocui 47/32, a titolo puramente sentimentale, e farsi onorevolmente trasformare, in breve volger di ore, nelle troppo note “bare ardenti d’acciaio”, carro dopo carro, semovente dopo semovente, autoblindo dopo autoblindo. Tuttavia il morale della divisione è alto; si vuole accontentare lo spirito del Maggiore Pardi, a distanza dalla sua morte, e del Colonnello Maretti, insostituibile, lontano per gravi ferite, del Maggiore Pinna e del Maggiore Prestisimone, siciliano, che cambiava carro “a mano a mano che glielo uccidevano sotto”, come fosse un cavallo, fino a tre lo stesso giorno, come gli accadde a Bir Hakeim.
Ma il 132° Carri ha ancora buoni comandanti (Baldini, Vaglia, Grata) e anche il 132° Artiglieria (il Colonnello Mameli, i Maggiori Pasqualini e Viglietti) e la truppa sarà degna di questi nomi, mentre già il deserto si annerisce di grossi scarafaggi a schiere, gli Sherman che avanzano a ferro di cavallo mentre la RAF tempesta dal cielo.
La battaglia divampa sino dal mattino, con violenza tremenda.
Battaglioni carristi IX, X e XIII, gruppi semoventi V e VI: nessuno cede, ogni pezzo spara finché il mezzo non s’incendia. Quelli che restano contrattaccano. Alle 15,30 dello stesso 3 novembre è trasmesso un messaggio destinato a Rommel:
Carri armati nemici fatta irruzione a sud. Con ciò Ariete accerchiata. Trovasi circa cinque chilometri nord-ovest Bir el Abd. Carri Ariete combattono”.
Qui cessano le comunicazioni ufficiali. Poi si è saputo che il sottotenente Pietro Bruno si era lanciato con il suo plotone carri contro il nemico, per proteggere il ripiegamento del X battaglione. Ferito alla spalla il giorno prima, non aveva voluto allontanarsi. Ha comandato l’azione ritto fuori della torretta: lo hanno visto così anche dopo che una scheggia lo aveva colpito alla fronte, inondandogli il viso di sangue. Poi è scomparso nel rogo del suo carro. Nella notte combattevano ancora solo gli 11 carri superstiti della compagnia del tenente Luigi Pascucci del XIII Battaglione; il Tenente è stato ucciso e l’ultimo carro si è incendiato prima dell’alba”.